Viaggiare in Giappone significa immergersi in un modo di vivere unico. Qui, la conoscenza dell’inglese è piuttosto limitata e la comunicazione avviene attraverso sorrisi, inclinazioni del capo e una disponibilità che conquista. Ho l’impressione che la cattiva sorte faccia fatica a trovare spazio in questo contesto.
Per giorni interi non abbiamo incontrato persone scortesi. Ovunque si sente un “grazie”, un “arigato”, come se fosse consuetudine salutare esprimendo gratitudine.
Un aspetto notevole è la longevità degli abitanti. Si possono vedere anziani che continuano a lavorare, pulire e organizzare, sempre attenti e impegnati.
Qui ci si ritira tardi, o talvolta non si va nemmeno in pensione. Camminano con calma, ma con un obiettivo preciso e un forte senso del dovere. È chiaro che esiste una cultura che valorizza il lavoro, insieme al rispetto reciproco. Non ci sono urla né spintoni, né fretta nel gareggiare. C’è ordine e buona educazione, non imposta, ma desiderata. Questo è il modo in cui opera la nazione.
E poi c’è Nagasaki, che non colpisce per la sua bellezza a prima vista e può apparire pacata. Questa città, caratterizzata da salite, tunnel e tram dalle atmosfere vintage, ha però un fascino particolare: la sua gente. Ciò che le manca in estetica è bilanciato dalla gentilezza della popolazione. Ogni passo è accompagnato da un saluto, un sorriso, e una reverenza genuina. A Nagasaki, si scattano meno foto, è vero, ma si torna a casa con l’affetto di un popolo affabile.