Ieri sera, i giornalisti che si trovavano a Nagasaki hanno cenato in un locale che, ammettiamolo, non avremmo mai scelto di visitare da soli. L’atmosfera era molto semplice, senza luci scintillanti, musica in sottofondo o immagini di piatti all’esterno. Solo una cortina leggermente aperta, un bancone e un paio di tavoli.
Tuttavia, all’interno, ci ha accolto una donna di oltre sessant’anni, affabile, pronta a preparare delle gyoza fatte in casa che sapevano, senza esagerare, di molto più di un semplice pasto. In Giappone, dove la cortesia e la distanza convivono, lei ha infranto questo schema.
Si è avvicinata come se fossimo amici da sempre, ci ha toccato la spalla e ha riso con noi, nonostante le barriere linguistiche. Ci ha trattati come una madre che scopre di avere dei figli mai conosciuti. Poco dopo, è apparso suo marito, il proprietario del ristorante. Non era padrone dello spagnolo né parlava quasi inglese, ma riusciva a dire “hello”, e lo pronunciava con una luce speciale. Quello è stato l’inizio di un’amicizia inaspettata, cresciuta intorno a due parole: Take Kubo.
Da quel momento, il calcio è diventato un legame forte. Ci ha mostrato la cucina, condiviso racconti sul quartiere e sulla sua vita. Ci ha spiegato che il ristorante era stato aperto da suo padre e che non avevano mai chiuso da allora. Quando gli abbiamo chiesto della sua famiglia e della storia del locale, con quel sorriso che non si spegne, ci ha confidato che suo padre era morto a causa della bomba atomica. Lo ha detto quasi con nonchalance, come se si riferisse a qualcosa di naturale, senza alcun rancore. Noi, invece, siamo rimasti senza parole. Lui, invece, ci ha riempito di gioia, comunicandolo con una delicatezza che solo qui può essere compresa, dove la memoria fa male ma non opprime. Qui si discute dell’orrore con una serenità che non è dimenticanza, ma un intento di non ripetere il passato. Abbiamo scattato una foto insieme a lui e a sua moglie. Non c’era bisogno di parole: l’essenziale era già stato espresso.
Oggi, il gruppo si è recato al Museo della Bomba Atomica e al Parco della Pace. Nagasaki sembra essere costruita attorno a una ferita che non sanguina, ma che non si chiude del tutto. Il museo presenta un’atmosfera sobria e diretta, con un forte richiamo all’umanità. Qui non si parla di nemici, ma delle loro conseguenze. A circondare il tutto è un silenzio tranquillo, quasi come se la città si prendesse il suo tempo per non infliggere ulteriore dolore. Non ci sono manifesti di odio, né richieste di vendetta o discorsi accesi. Solo un intenso desiderio, tangibile, affinché simili eventi non si ripetano. Per questo motivo chiamo Nagasaki la città della pace. Ogni gesto, ogni sguardo, ogni sorriso di chi offre gyoza al termine della giornata porta con sé questo messaggio: vivere con dignità, ricordando, ma senza nutrire rancore.